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MOBILITÄT UND MUSIKALISCHER WANDEL: MUSIK UND MUSIKFORSCHUNG IM INTERNATIONALEN KONTEXT

Internationale Tagung der Gesellschaft für Musikforschung anlässlich des 50-jährigen Bestehens der musikgeschichtlichen
Abteilung des Deutschen Historischen Instituts in Rom vom 2. bis 6. November 2010

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Roundtable II

La musica Italiana degli anni Quaranta

 

 

Donnerstag, 4. November 2010

9.00 - 13.00 Uhr
Deutsche Schule Rom, Aula

 

 

Programm

 

09.00      Einführung | Introduzione

Christoph Flamm (Saarbrücken)

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09.30      Propaganda, musica e regime negli anni Quaranta

Roberto Illiano (Lucca)

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10.00      »Volo di notte« di Luigi Dallapiccola e il dramma della modernità

Luca Sala (Paris)

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10.30      Kaffeepause | Pausa caffè

 

11.00      Alfredo Casella e la »vera tradizione« italiana tra progresso e regresso

Simone Ciolfi (Roma)

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11.30      Anni di guerra, tempo d'esilio: la musica di Ennio Porrino nell'Italia tra la

fine della monarchia e l'avvento della Repubblica Italiana

Myriam Quaquero (Quartu Sant'Elena)

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12.00      La dodecafonia come movimento »di massa« alla fine degli anni Quaranta

Stefan König (Karlsruhe)

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12.30      Discussione generale

 

 

Abstracts

Christoph Flamm (Saarbrücken): Einführung | Introduzione

 

Nonostante gli anni di guerra e di ricostruzione, c'era una produzione musicale costante in Italia negli anni quaranta. La differenza fra cultura italiana fascista e cultura italiana nel dopo-guerra sembra
assoluta: un abisso estetico senza nessun legame. Comunque, la ricerca musicologica negli ultimi decenni ha scosso quest'immagine, indicando delle continuità nella vita musicale. Adesso, si pensa più ad una mitologia moderna, post-fascista, che fu creata per distaccarsi da un passato quasi sconosciuto all'estero, e poter aderire alle tendenze internazionali. Per consequenza, conosciamo sì dei compositori e delle opere musicali NEGLI anni quaranta, ma non conosciamo una musica DEGLI anni quaranta in Italia, nel senso di un panorama vero e proprio: meno selettivo, meno bianco-nero. In che modo i cambiamenti politici e sociali hanno influenzato le estetiche dei compositori famosi - oppure non li toccavano per niente? Dove sono andati i tantissimi discepoli di Casella e Respighi, e il loro modo di scrivere? In che senso si può parlare di una nuova internazionalità italiana sul settore musicale, superando un'isolazione o ritardo estetico, immaginato o reale? Queste domande e tante altre saranno alla base del roundtable, che vuole aprirsi in una discussione aperta alla fine.

 

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Roberto Illiano (Lucca): Propaganda, musica e regime negli anni Quaranta

 

La propaganda, nell’Italia fascista, fu il mezzo più importante per esercitare una politica del consenso. Il tipo di propaganda utilizzato da Mussolini per costruire uno stato totalitario si basò in larghissima parte sul culto della propria persona, sul mito del capo. Ecco allora che le virtù del duce vennero celebrate costantemente attraverso stampa, radio, libri, cinegiornali e, soprattutto, scuola. Il dogma dell’infallibilità rasentò l’idolatria, tanto che pure il Vaticano ne ebbe a un certo punto timore. La cultura dell’immagine entrò dunque a pieno titolo nel meccanismo del consenso anticipando di più di mezzo secolo la politica spettacolo oggi utilizzata a livello mondiale.
Gli intellettuali ovviamente non si resero conto facilmente di questa nuova arma — la propaganda —, perché fino ad allora non era mai stata adottata in modo così sistematico. In ambito musicale  il regime sembrò propenso a tollerare e incentivare le scelte moderniste; i fascisti svilupparono una ricca struttura di mecenatismo finalizzata a contenere il dissenso e ad attirare i compositori in una rete di rapporti con il regime. Questa posizione apparentemente tollerante fu molto astuta, perché incoraggiò gli intellettuali a competere per il riconoscimento e la legittimazione del loro lavoro da parte del governo. Ma tale approccio non fu espressione di tolleranza reale. Il fascismo, infatti, controllò tutta la produzione artistica attraverso alcune regole tacite che limitavano la produzione dei compositori e li portavano ad autocensurarsi.

 

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Luca Sala (Paris): »Volo di notte« di Luigi Dallapiccola e il dramma della modernità

 

Più volte la cantabilità »italiana« riscontrata nell'opera di Dallapiccola è stata oggetto di critiche rigorose e severe che in qualche modo hanno teso a mettere in dubbio il rigore e la solidità della propria tecnica dodecafonica. In realtà l'approccio alla dodecafonia e la serrata disciplina alla regola seriale furono un processo lento di apprendistato interiore e che si costruì nel tempo con continuità. Negli anni 50 il senso della propria parabola creativa si fa più compiuto e netto, portando a maturità le sperimentazioni giovanili e il fervore dilaniante delle opere degli anni 40, preparando così il terreno all'Ulisse. Se nella trasfigurazione dell'Ulisse Dallapiccola compie un atto di traslazione di tutti gli elementi compositivi della propria poetica in una fucina di simboli e corrispondenze semantiche, simmetrie e sincronie di relazioni formali, condensando nell'opera ultima il senso stesso del suo intero mondo, è con » Volo di Notte« che tale modello architettonico vede la luce. Indubbiamente contrastato » Volo di notte« è stato fino ad oggi l'opera dallapiccoliana la più controversa in relazione alle implicazioni sociologiche che hanno portato l'atto unico a diventare capro espiatorio di facili allusioni e distorsioni politiche. E se da una parte si cerca di intravedere una rielaborazione profusa e sottile di piena aderenza all'ideologia fascista, dall'altra la si accusa di debole e insufficiente apologia. Al di là della manipolazioni di settore e di comodo, fu tuttavia a partire da qui che Dallapiccola cominciò ad operare un processo continuo di mediazione tra testo e musica che diventerà l'elemento chiave e rivelatore di un messaggio insieme » politico« e » mistico«, in relazione al proprio paesaggio interiore, ed esegetico di un teatro musicale che ha tutti i contorni della rappresentazione dei drammi del paesaggio interiore, in sintesi un dramma della modernità.

 

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Simone Ciolfi (Roma): Alfredo Casella e la »vera tradizione« italiana tra progresso e regresso

 

Nelle intenzioni programmatiche di Casella il patrimonio della tradizione musicale italiana, opportunamente combinato con la conoscenza del »linguaggio contemporaneo« e delle »necessità spirituali delle masse«, avrebbe dovuto originare uno »stile nostro«, nazionale e al contempo universale. L’ecumenismo contraddittorio di tali osservazioni (non sapremo mai quanto cosciente) ci restituisce un Casella intento, almeno nelle pagine critiche e negli articoli, a concordare elementi inconciliabili e talvolta generici. Pur considerando la naturale distanza fra dichiarazioni estetiche e pratica della composizione, il proposito della relazione è mettere a confronto tali opinioni con la realtà del fatto musicale: al di là delle molte edizioni critiche curate dall’autore fino agli ultimi anni, come rivive, per esempio, la musica di Paganini nelle pagine di Paganiniana (1942)? Fino a che punto gli intenti progressisti si sposano con lo sguardo rivolto al passato? Quanto ha in comune con altre correnti »oggettiviste« o »neoclassiche« questa strategia compositiva? Sono reperibili al suo interno caratteri regressivi o spazi di fuga da una modernità a tutti i costi rumorosamente affermata e difesa? La »ricomposizione« del passato ha carattere più elitario o più popolare? Come convivono, nelle parole e nella musica di Casella, la spinta verso il nuovo e quella verso l’antico?

 

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Myriam Quaquero (Quartu Sant'Elena): Anni di guerra, tempo d'esilio: la musica di Ennio Porrino nell'Italia tra la fine della monarchia e l'avvento della Repubblica Italiana

 

Chiamato a Venezia al Conservatorio »Benedetto Marcello«, Ennio Porrino non presta servizio nella prestigiosa istituzione musicale (guidata in quegli anni da Gian Francesco Malipiero) perché è direttamente impegnato presso la Direzione Generale per il Teatro del Ministero della Cultura Popolare della Repubblica di Salò, così riducendosi, forse in modo non del tutto consapevole, a una condizione di rovinoso isolamento. Un confine o un esilio, appunto, in cui Porrino convive con una sconosciuta condizione di proscritto, nella convinzione ormai maturata da diversi anni di esser preso di mira per le proprie posizioni estetiche, di stampo conservatore, da un preciso e potente gruppo di musicisti.

Il periodo veneziano diventa così un essenziale punto di svolta della vita di Porrino: una testimonianza significativa e certamente drammatica di come un musicista valente, toccato molto presto dal successo, ma del tutto impreparato dal punto di vista politico, abbia voluto essere coerente fino all’ultimo con gli ideali maturati negli anni giovanili e si sia integrato alle sollecitazioni del potere con una percezione della situazione istituzionale, e più in particolare della catastrofe bellica, fortemente mistificata dalla propaganda del regime. È questo nuovo clima esistenziale, oscuro e complicato, a ispirare a Porrino »I Canti dell’esilio« e diversi altri lavori (tra cui la sua principale opera, »I Shardana«), tutti fortemente ancorati alle istanze estetiche del musicista.

 

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Stefan König (Karlsruhe): La dodecafonia come movimento »di massa« alla fine degli anni Quaranta

 

»Mi è parso proprio che l’arte di Schönberg si trovasse a tale distanza dalla sensibilità nostra, da non lasciar speranza alcuna che l’abisso venga mai pienamente colmato.« Sono parole di Alfredo Casella, organizzatore di una tournee del Pierrot Lunaire per tutta l’Italia, iniziata dalla Corporazione delle Nuove Musiche nell’aprile del 1924. La sua profezia valeva per quasi vent’anni. Ma dopo gli avvenimenti tragici della seconda guerra mondiale nella musica Italiana ci si arrivava ad un cambiamento decisivo di orientamenti stilistici ed estetici che portò con se una rivalutazione della Seconda Scuola Viennese ed un’occupazione quasi collettiva del metodo compositivo e seriale che fino a quel momento veniva rifiutato. Moltissime erano in Italia le adesioni alla dodecafonia che si svolgevano soprattutto nel breve arco di tempo dal 1946 al 1950. Si fa osservare il fenomeno dell’»ecumenismo dodecafonico« che dette spazio sia alla dodecafonia di rigore sia alle estreme mitigazioni tonali in modo tale che la tecnica seriale poteva essere adoperata da tutte le generazioni. Mentre i giovani si emancipavano molto presto da Vienna per scoprire poi nuovi orizzonti timbrici (Bruno Maderna, Luigi Nono etc.), molti compositori della cosiddetta »generazione di mezzo«, cresciuti ancora nell’epoca fascista, attribuivano alle loro adesioni alla dodecafonia il significato di una vera e propria conversione. Oltre a Luigi Dallapiccola (1904–1975), che aveva scoperto l’arte di Schönberg già prima, anche – fra gli altri – Antonio Veretti (1900–1978), Gino Contilli (1907–1978) e Riccardo Malipiero (1914–2003) intendevano il metodo seriale non solo come una tecnica, ma soprattutto come l’estetica di un’espressività angosciata che garantiva una via d’uscita dall’ottimismo obbligato della musica degli anni Trenta. Nelle loro prime opere dodecafoniche si trovano quindi spesso dei testi di moralità alta oppure liturgica come nella Cantata sacra (1947) di Malipiero e nei Canti di morte (1949) di Contilli. Circolava indirettamente – come ha scritto Guido Salvetti – l’equazione »arditezza linguistica uguale contrizione morale« che da quelli che non volevano aderire alla dodecafonia veniva percepita addirittura come »aggressione culturale«.

La relazione mette in rilievo il fenomeno delle conversioni alla dodecafonia nella »generazione di mezzo« e si occupa del rigore compositivo, ma anche morale nella musica italiana degli ultimi anni Quaranta.

 

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